L'equivalenza e l'interscambiabilità di una meta con ogni altra appaiono icasticamente nei 94 minuti di Austerlitz, film del 2016 di Sergei Loznitsa che indaga, con un asciutto bianco e nero a camera fissa, la fruizione turistica dei cosiddetti luoghi della memoria dei crimini nazisti, i musei istituiti sulle aree in cui sorgevano i lager o sulle loro rovine. Se, da una parte, non può che essere considerata positivamente la visita a questi luoghi, come dolorosa volontà di conoscenza, dall’altra, però, non si può non notare come, per la «difesa dagli chocs» (Walter Benjamin, 1939) derivanti dalla stessa, vengano utilizzate sia, dall’alto, le spiegazioni tecnicistiche delle guide sulla macchina dello sterminio, sia, dal basso, l’uso della fotografia. La neutralizzazione di quest’esperienza è la risultante involontaria, ma non per questo meno preoccupante dei modi di fruizione e di organizzazione delle visite. Diversamente dal percorso di ricostruzione della memoria personale e familiare (ma che, allo stesso tempo, si fa storia) del protagonista del romanzo di Sebald da cui il documentario prende il titolo, ricostruzione che procede per gradi, scavo nel rimosso, nella memoria involontaria, attraverso immagini, viaggi, archivi e incontri, «questi centri commemorativi rappresentano l'esatto contrario di ciò che dovrebbero essere: non luoghi della memoria, ma della dimenticanza», come nota il regista, visto che «non è possibile acquisire reale consapevolezza della catastrofe solo immagazzinando dati meccanici sul funzionamento dei forni crematori o facendo un selfie dentro la camera a gas».
Lo stesso meccanismo di difesa, quello cioè «di assegnare all’evento [che provoca lo choc], a spese dell’integrità del suo contenuto, un esatto posto temporale nella coscienza» (Walter Benjamin, 1939), lo troviamo nella pratica compulsiva della fotografia: la reificazione di un’esperienza vissuta in un’immagine risulta essere l’iscrizione di quell’esperienza nella memoria volontaria, la creazione di un souvenir che, in realtà, impedisca il ricordo e la rielaborazione di esso, tanto più che ad aumentare la distanza tra sguardo ed esperienza stessa viene a frapporsi il diaframma degli schermi dei vari dispositivi attraverso cui si sceglie cosa guardare (e che schermano appunto lo sguardo) e ad implementare questa customizzazione di massa della memoria interviene l’immediatezza, il «gesto brusco» (Walter Benjamin, 1939) esteso alla riproduzione dell’immagine, che ha sostituito le lunghe operazioni di sviluppo del negativo e di stampa con la subitanea condivisione sui vari social networks.
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