lunedì 26 novembre 2018

materiali per una guida a in forma di massa #4

L'equivalenza e l'interscambiabilità di una meta con ogni altra appaiono icasticamente nei 94 minuti di Austerlitz, film del 2016 di Sergei Loznitsa che indaga, con un asciutto bianco e nero a camera fissa, la fruizione turistica dei cosiddetti luoghi della memoria dei crimini nazisti, i musei istituiti sulle aree in cui sorgevano i lager o sulle loro rovine. Se, da una parte, non può che essere considerata positivamente la visita a questi luoghi, come dolorosa volontà di conoscenza, dall’altra, però, non si può non notare come, per la «difesa dagli chocs» (Walter Benjamin, 1939) derivanti dalla stessa, vengano utilizzate sia, dall’alto, le spiegazioni tecnicistiche delle guide sulla macchina dello sterminio, sia, dal basso, l’uso della fotografia. La neutralizzazione di quest’esperienza è la risultante involontaria, ma non per questo meno preoccupante dei modi di fruizione e di organizzazione delle visite. Diversamente dal percorso di ricostruzione della memoria personale e familiare (ma che, allo stesso tempo, si fa storia) del protagonista del romanzo di Sebald da cui il documentario prende il titolo, ricostruzione che procede per gradi, scavo nel rimosso, nella memoria involontaria, attraverso immagini, viaggi, archivi e incontri, «questi centri commemorativi rappresentano l'esatto contrario di ciò che dovrebbero essere: non luoghi della memoria, ma della dimenticanza», come nota il regista, visto che «non è possibile acquisire reale consapevolezza della catastrofe solo immagazzinando dati meccanici sul funzionamento dei forni crematori o facendo un selfie dentro la camera a gas».
Lo stesso meccanismo di difesa, quello cioè «di assegnare all’evento [che provoca lo choc], a spese dell’integrità del suo contenuto, un esatto posto temporale nella coscienza» (Walter Benjamin, 1939), lo troviamo nella pratica compulsiva della fotografia: la reificazione di un’esperienza vissuta in un’immagine risulta essere l’iscrizione di quell’esperienza nella memoria volontaria, la creazione di un souvenir che, in realtà, impedisca il ricordo e la rielaborazione di esso, tanto più che ad aumentare la distanza tra sguardo ed esperienza stessa viene a frapporsi il diaframma degli schermi dei vari dispositivi attraverso cui si sceglie cosa guardare (e che schermano appunto lo sguardo) e ad implementare questa customizzazione di massa della memoria interviene l’immediatezza, il «gesto brusco» (Walter Benjamin, 1939) esteso alla riproduzione dell’immagine, che ha sostituito le lunghe operazioni di sviluppo del negativo e di stampa con la subitanea condivisione sui vari social networks.





sabato 24 novembre 2018

materiali per una guida a in forma di massa #3

(Una banalità di base)

In generale, come rovescio del lavoro, il consumo è la dissoluzione del salario in concatenazioni di desiderio indifferentemente dal loro contenuto: se, infatti, «nella sfera del lavoro non conta cosa si fa, ma che si faccia qualcosa, dal momento che il lavoro è un fine in sé, proprio perché realizza la valorizzazione del capitale: l’infinita moltiplicazione del denaro grazie al denaro stesso» (Gruppo Krisis, 1999), allora nel consumo si scorge una simile finalità autoriflessa in cui il godimento, sempre frustrato, derivante dal consumo è slegato dal contenuto del consumo stesso, ma serve a riassorbire il capitale variabile e a realizzare come necessario il vincolo che lega il lavoratore-consumatore a un salario. Non importa, quindi, cosa si consumi, purché si consumi qualcosa.
In particolare, il consumo culturale si esemplifica nel turismo come consumo culturale indifferente. Nelle società virtualmente pacificate, come quelle occidentali, la lotta di classe si manifesta per lo più come inseguimento temporale delle classi subalterne (ormai micro-borghesi) alle privilegiate, sul piano simbolico, come «dialettica del declassamento e della riclassificazione» (Pierre Bourdieu, 1979) delle pratiche culturali: si ambisce, in breve, allo stesso livello di consumo culturale delle classi agiate, ostensione del proprio smarcarsi dalla classe di provenienza. E la possibilità di viaggiare, la libertà di movimento sono tra le forme di consumo più facilmente riconoscibili e distintive. Nell'epoca della sua disponibilità di massa, il viaggio si configura così come attività socialmente obbligatoria che equipara ogni meta a qualsiasi altra (Guy Debord, 1967), che ricerca un'autenticità inseguita ma sempre negata sulla scia degli indicatori di ciò che si deve vedere (markers) (Marco D’Eramo, 2017), e che incide profondamente sull'ambiente in cui si svolge (InfoAut, 2018). Si andrà, quindi, in qualsiasi posto nello stesso modo, negli stessi abiti, con le stesse esigenze, posando indifferentemente per le foto-ricordo.

venerdì 9 novembre 2018

materiali per una guida a in forma di massa #2

Il Civico Museo della Risiera di San Sabba, a Trieste, venne inaugurato nel 1975. In funzione dalla fine di ottobre del 1943 fino alla fine di aprile del '45 come Polizeihaftlager (campo di detenzione di polizia), la Risiera assolse a numerosi compiti. Fu, infatti, campo di raccolta per le deportazioni razziali verso i lager in Germania e Polonia, prigione, campo di eliminazione fisica di oppositori e nemici, in special modo partigiani, base per azioni di rappresaglia e per rastrellamenti. Su progetto dell'architetto Romano Boico, assunse l'attuale aspetto che, oltre alla funzione museale, la rende spazio vuoto nel quale la presenza incancellabile di quel passato si fa opprimente (http://www.engramma.it/eOS/index.php?id_articolo=2123). Attorno a questo memoriale (e in qualche caso anche su parte dell'area che faceva parte del lager) negli anni sono sorti edifici commerciali e ricreativi: agli adiacenti parcheggi si sommano due supermercati (Lidl e Famila), due negozi di bricolage e, poco più in là, lo stadio Nereo Rocco, inaugurato nel '92. La memoria del capitale.

mercoledì 7 novembre 2018

materiali per una guida a in forma di massa #1

Tra il 1999 e il 2001 a Oswiecim (paese meglio conosciuto come Auschwitz) e non solo montò un'accesa polemica per la volontà di aprire una discoteca, da parte del proprietario del terreno, in quella che era una conceria adibita anche a deposito di scarpe, bagagli e capelli degli internati del vicino lager (http://auschwitz.org/…/…/a-discotheque-at-auschwitz,139.html; http://auschwitzstudygroup.com/articles/780-lederfabrik). 
L'oblio sulla vicenda cadde perché la decisione di desistere dall'intento avvenne l'undici settembre 2001 (http://edition.cnn.com/…/WORLD/europe/09/11/auschwitz.disco/). Non se ne dimenticarono, però, Alan Vega e Martin Rev (che cambiarono nel titolo il nome del lager per palesi motivi allitterativi):