venerdì 10 aprile 2020

à la guerre

Ecco a cosa è funzionale la retorica bellica che è in continuazione utilizzata per descrivere l'evento epidemico. Meglio: non per descriverlo, ma per produrlo come stato d'emergenza. Ad un dato reale drammatico (l'epidemia) viene sovrapposta la metafora della guerra non solo per renderlo comprensibile, ma anche per compattare la comunità nazionale, per creare un nemico esterno, per eliminare la conflittualità interna e per aumentare il controllo. Vari sono stati i commenti a questo uso linguistico[1], ma quasi tutti (tranne quello di Giorgio Coen Cagli su Dinamopress[2]) dimenticano il fondamento nazionalista di questa metafora: la riaffermazione della nazione come comunità sacrificale. Come spiega Alberto Mario Banti[3], la morfologia discorsiva nazionalista fonda la nazione come gruppo di discendenza, strutturato in una gerarchia sessualizzata, per il quale è doveroso sacrificarsi. Se, ideologicamente, la richiesta è quella di un sacrificio per la nazione, la realtà è quella di un sacrificio per proteggere in primis le strutture e le istituzioni che hanno prodotto quella nazione (con il fine di sostituire l'antica legittimità garantita dall'ordine divino con quella “popolare”), cioè a dire lo Stato nella sua forma moderna, appunto, di Stato-nazione. E qual è l'estremo sacrificio se non quello di morire in guerra per la Patria?
Le conseguenze di questa metafora sono assai gravi. Parlando di eroi che si immolano al fronte (medici e infermieri) si finisce per nascondere altre categorie meno spendibili di lavoratori (OSS, addetti alle pulizie, amministrativi), il fatto che tutti siano stati messi a rischio non essendo stati dotati per tempo di adeguati dispositivi di protezione e diagnosi, i decenni di tagli alla sanità pubblica. Parlando di sforzo comune si veicola l'idea di una comunità nazionale omogenea e non segmentata, nella quale ognuno svolge il suo compito obbedendo agli ordini, rendendo così non solo più accettabili, ma persino desiderabili il silenziamento del dissenso con il divieto (a cui le autorità, però, contravvengono[4] )di manifestazione per la sicurezza sul lavoro, per la chiusura delle fabbriche, contro le spese militari, ad esempio, e un controllo maggiore sulle vite delle persone, grazie alle nuove tecnologie e ad un'ulteriore militarizzazione del territorio. Evocando la difesa della patria si ricostruisce un passato, cancellando il fatto che tutte le guerre a cui ha partecipato e partecipa lo Stato italiano sono, dalla sua fondazione ad oggi, guerre di offesa e lo omogeneizza appiattendo ogni differenza. Emblematico e sconcertante è, a tal proposito, il riferimento alla Linea Gotica: linea sì difensiva, ma nazifascista, approntata per impedire l'avanzata degli Alleati lungo la Penisola.
La metafora è, infine, funzionale alla creazione di un nemico verso il quale indirizzare l'odio e la frustrazione della popolazione. E se è difficile identificarlo in un virus non solo per la sua invisibilità, ma anche per la sua assenza di volontà (secondo le categorie umane), allora è necessario rivolgere quelle pulsioni a dei succedanei. Perciò non si criticano le scelte scellerate e ondivaghe di governi nazionale e regionali, di Confindustria[5] e opposizioni[6], ma si ricerca la cosiddetta quinta colonna che si identifica di volta in volta con organismi sovranazionali o altri Stati, con i Cinesi, il paziente zero, il runner, lo studente fuori sede che tenta di tornare a casa. Si pretende così di chiudere le frontiere (cosa poi sancita dalla sospensione del Trattato di Schengen) e si vagheggia di un ritorno ad un'Europa di singoli Stati sovrani (ma minimi, ridotti cioè a poco più che alla detenzione della violenza legittima, interna ed esterna). Viene così, inoltre, compartita la popolazione tra cittadini foucaultianamente disciplinati, che accettano i dettami governativi e le ristrutturazioni aziendali, e pericolosi fiancheggiatori, passibili di bando. Riaffiora, ancora una volta, quello che Rancière chiama «odio puro per l'altro», a patto di considerare questo «ritorno a ciò che è più arcaico» come affatto moderno, non come un ritorno ad un passato pre-storico e originario, ma come un suo accadere, una sua manifestazione sempre nuova. E l'altro è prima di tutto il non assimilato, il diverso, il più debole, sia esso anziano, senzatetto o migrante.
Dell'ultimo caso abbiamo un'ulteriore concretizzazione con il ributtante decreto interministeriale che indica come non più sicuri i porti italiani[7]. Questo decreto non solo palesa la razzista continuità dello Stato nel trattare la questione delle migrazioni, condivisa da tutto l'arco parlamentare, ma sospende de jure, anche se illegittimamente, il diritto internazionale e impedisce il soccorso in mare, confermando così le condanne a torture e morte che da decenni le autorità italiane ed europee comminano sia per omissione esternalizzando le frontiere, sia attivamente attraverso le azioni delle varie forze dell'ordine e del sistema concentrazionario. Insomma, ancora una volta, non c'è la possibilità che in futuro l'emergenza porti ad esiti autoritari, sono già qui che si stanno dispiegando sotto i nostri occhi e attraverso il linguaggio che usiamo e dal quale siamo usati.

[1] https://www.internazionale.it/…/22/coronavirus-metafore-gue…; https://www.internazionale.it/…/30/metafora-guerra-coronavi…; https://www.iltascabile.com/scienze/pandemia-guerra/

[2] https://www.dinamopress.it/…/virus-la-patria-sulle-rappres…/

[3] https://www.laterza.it/index.php…

[4] https://video.repubblica.it/…/la-polizia-loca…/357053/357618

[5] https://www.ilsole24ore.com/…/coronavirus-confindustria-lom…

[6] https://www.nextquotidiano.it/emendamento-lega-per-salvare…/

[7] https://www.meltingpot.org/Il-governo-inasprisce-il-decreto…

sabato 4 aprile 2020

in forma di massa = video + brochure



materiali per una guida a in forma di massa #6

Con i suoi 660 milioni di recensioni (Linda Kinstler, La legge di TripAdvisor, in Internazionale, n°1279, 2018) il sito di viaggi TripAdvisor è probabilmente il maggior creatore di markers al mondo, grazie all’ausilio (autosfruttamento?) di una massa enorme di utenti che, in pratica, lavora sia postando i resoconti dei propri viaggi, sia andando a cercare informazioni per viaggi futuri, ricerche sulle quali TripAdvisor per ogni click riceve una piccola commissione dalle strutture consultate. Esempio tra i tanti dell’asimmetria tra l’immagine che le aziende della cosiddetta sharing economy danno di sé come liberali aggregatori di esperienze da condividere e la netta suddivisione che queste fanno tra profitto da una parte e lavoro gratuito dall’altra. Se la mole delle informazioni che si possono ricavare dal sito possono essere molto utili nella pianificazione di una vacanza, la policy di TA sulla moderazione dei commenti può risultare fuorviante (e assurda nei casi di segnalazioni di violenze subite) vista la difficoltà di decisione sui casi di recensioni vere ma negative, mentre risulta essere più efficace l’azione di contrasto alle recensioni false e alle review farms (Kinstler, 2018; TripAdvisor, Come si comporta TripAdvisor rispetto alle recensioni scorrette?), anche grazie alla minaccia di durissime sanzioni (Eleonora Cozzella, Recensioni false su TripAdvisor? È un reato: condannato a 9 mesi di carcere). Con la pretesa di mappare tutto ciò che può essere usufruito turisticamente, TripAdvisor, esattamente come il turismo di massa a cui si rivolge, appiattisce, sia pur involontariamente, ogni luogo, lo rende interscambiabile con qualsiasi altro, favorisce uno sguardo indifferente dal suo contenuto, dalla sua differenza. Questo è il risultato non solo del mezzo in sé, ma anche delle linee guida che tendono a standardizzare le recensioni in un misto di utilitarismo giornalistico e impressionismo emotivo (TripAdvisor Centro assistenza, Regolamento per le recensioni dei viaggiatori). E così come per qualsiasi altro luogo esistono pagine recensite dei memoriali della Shoah.
I testi di “in forma di massa”, in estrema sintesi, vorrebbero indagare i rapporti, le tensioni, le frizioni tra memoria (storica) e turismo di massa, componendo escerti da varie fonti e mutuando la forma di recensioni di Tripadvisor ai sei campi di sterminio nazisti, venendo dislocati cioè da un campo (quello letterario, diciamo) ad un altro (Christophe Hanna, Poesia azione diretta, 2003), per mettere in discussione la corrispondenza tra forma e contenuto e confondere la ricezione del messaggio. Due di questi testi (#2 e #5) hanno passato lo screening preventivo, eseguito più probabilmente dal sistema di monitoraggio automatizzato che dal «team di investigatori», e, così approvati, sono stati pubblicati. Ai restanti quattro l'autorizzazione è stata negata e non sono più visualizzabili sul sito: nelle mail che hanno accompagnato il diniego, titolate “Crediamo nella libertà di espressione”, mi si invitava ad apportare delle modifiche perché «la recensione dovrebbe essere una descrizione fedele della tua esperienza» e perché «Tripadvisor non accetta contenuti irrilevanti o inutili» (#3) e non deve «includere opinioni personali su: politica, etica, religione, altre questioni sociali» (#1 e #4), sulla base della triade a guida della stesura di una buona recensione (autenticità, obiettività, utilità). L'ultimo testo (#6), invece, non è stato accettato su segnalazione, presumibilmente, dell'utente che nel messaggio inviatomi denunciava l'inintelligibilità del testo stesso.
Ora i testi si presentano (anche) offline, camuffandosi da un altro tipo di materiale informativo turistico, la brochure, senza cambiare la forma e la domanda ad essi sottesa: è praticabile una scrittura che non sia espressivista/sentimentalista (contro l'autenticità), neutrale/neutralizzata (contro la presunta obiettività), meramente utilitarista (contro l'utilità) al di fuori di una nicchietta (letteraria?)?


in forma di massa #2


in forma di massa #5


in forma di massa #3


in forma di massa #1


in forma di massa #4


in forma di massa #6

materiali per una guida a in forma di massa #5

La critica alla disneyzzazione dei luoghi della memoria, che Didi-Huberman esprime con precisione chiedendosi «Che cosa dire quando Auschwitz deve essere dimenticata nel suo luogo reale per costituirsi come luogo fittizio destinato a ricordarsi di Auschwitz?» (Georges Didi-Huberman, Scorze, 2011), è di tutt’altra natura, ovviamente, rispetto al fenomeno di minimizzazione e ridicolizzazione dello sterminio che vediamo all’opera, ad esempio, con la maglietta che abbina alla silouette dell’ingresso del campo di Birkenau la scritta Auschwitzland con lo stesso carattere usato dalla Disney per pubblicizzare i suoi parchi di divertimento, sfoggiata da una militante di Forza Nuova a Predappio per l'anniversario della marcia su Roma. Se là, infatti, abbiamo un interrogarsi sulla funzione e sull’efficacia di questi monumenti, della loro museificazione e della loro turistificazione di massa, qui abbiamo una squallida equiparazione tra un campo di sterminio e un luogo di villeggiatura e svago, tra vittime dell’orrore nazista e vacanzieri festanti.
Oltre al lassismo nei confronti di associazioni e partiti nazionalisti o apertamente neofascisti che negano lo sterminio o, specularmente, lo esaltano ridicolizzando le vittime, oltre alla banalizzazione, «nell’accezione di ipersemplificazione, spettacolarizzazione e sfruttamento della storia a scopi commerciali» (Valentina Pisanty, Abusi di memoria. Negare, banalizzare, sacralizzare la Shoah, 2012), che questi musei rischiano di subire, se trattati come attrazioni qualsiasi, o a quella che sminuisce la ferocia nazista (come nel caso del dépliant, creato nel 2015 dall’amministrazione di Cosenza, che, per promuovere la città come luogo che la tradizione indica quale sepoltura del re visigoto Alarico, contiene una foto di Himmler, per il fatto che diede avvio negli anni '30 ad una campagna di scavo in loco o delle differenti versioni della voce Treccani sullo stesso gerarca, definito «nazista tedesco» nel 1948 e ora «uomo politico tedesco»). Oltre a ciò, una terza opzione che può favorire la neutralizzazione della funzione mnemonica affidata a questi musei è la loro sacralizzazione, cioè il conformarsi a quel «dispositivo ideologico, non importa quanto consapevole e intenzionale, mirato a sottrarre un evento […] al suo contesto storico specifico […], semplificandone la rappresentazione» (Pisanty, 2012) e che impone, attraverso una serie di divieti, usi e discorsi leciti della memoria, sanzionando, quindi, chi possa e come si possa parlare di un dato evento. Lo stesso dispositivo operante nelle critiche sull’irrappresentabilità della Shoah volte a delegittimare le quattro fotografie scattate a Birkenau da un membro del Sonderkommando (Georges Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, 2003) o nella costruzione dell'identità nazionale da parte dello Stato israeliano soprattutto dalla guerra dei sei giorni in avanti (Pisanty, 2012).
È pensabile una fruizione dei luoghi della memoria che si tenga lontana da queste trappole e che attivi una riflessione in grado di riconoscere quegli stessi meccanismi di criminalizzazione, marginalizzazione e spersonalizzazione (Alessandro Dal Lago, Non-persone, 1999) che portarono a quegli eventi e che sono tuttora agenti? Una memoria attuale e attiva che si faccia carico delle vittime e non si accontenti dell’oblio come unica forma tradizionalmente contemplata di superamento dei conflitti («Noi la memoria delle morti acerbe / In ogni petto cancelliam […]» Odissea, Libro XXIV, vv. 614-615)?





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