sabato 4 aprile 2020

materiali per una guida a in forma di massa #5

La critica alla disneyzzazione dei luoghi della memoria, che Didi-Huberman esprime con precisione chiedendosi «Che cosa dire quando Auschwitz deve essere dimenticata nel suo luogo reale per costituirsi come luogo fittizio destinato a ricordarsi di Auschwitz?» (Georges Didi-Huberman, Scorze, 2011), è di tutt’altra natura, ovviamente, rispetto al fenomeno di minimizzazione e ridicolizzazione dello sterminio che vediamo all’opera, ad esempio, con la maglietta che abbina alla silouette dell’ingresso del campo di Birkenau la scritta Auschwitzland con lo stesso carattere usato dalla Disney per pubblicizzare i suoi parchi di divertimento, sfoggiata da una militante di Forza Nuova a Predappio per l'anniversario della marcia su Roma. Se là, infatti, abbiamo un interrogarsi sulla funzione e sull’efficacia di questi monumenti, della loro museificazione e della loro turistificazione di massa, qui abbiamo una squallida equiparazione tra un campo di sterminio e un luogo di villeggiatura e svago, tra vittime dell’orrore nazista e vacanzieri festanti.
Oltre al lassismo nei confronti di associazioni e partiti nazionalisti o apertamente neofascisti che negano lo sterminio o, specularmente, lo esaltano ridicolizzando le vittime, oltre alla banalizzazione, «nell’accezione di ipersemplificazione, spettacolarizzazione e sfruttamento della storia a scopi commerciali» (Valentina Pisanty, Abusi di memoria. Negare, banalizzare, sacralizzare la Shoah, 2012), che questi musei rischiano di subire, se trattati come attrazioni qualsiasi, o a quella che sminuisce la ferocia nazista (come nel caso del dépliant, creato nel 2015 dall’amministrazione di Cosenza, che, per promuovere la città come luogo che la tradizione indica quale sepoltura del re visigoto Alarico, contiene una foto di Himmler, per il fatto che diede avvio negli anni '30 ad una campagna di scavo in loco o delle differenti versioni della voce Treccani sullo stesso gerarca, definito «nazista tedesco» nel 1948 e ora «uomo politico tedesco»). Oltre a ciò, una terza opzione che può favorire la neutralizzazione della funzione mnemonica affidata a questi musei è la loro sacralizzazione, cioè il conformarsi a quel «dispositivo ideologico, non importa quanto consapevole e intenzionale, mirato a sottrarre un evento […] al suo contesto storico specifico […], semplificandone la rappresentazione» (Pisanty, 2012) e che impone, attraverso una serie di divieti, usi e discorsi leciti della memoria, sanzionando, quindi, chi possa e come si possa parlare di un dato evento. Lo stesso dispositivo operante nelle critiche sull’irrappresentabilità della Shoah volte a delegittimare le quattro fotografie scattate a Birkenau da un membro del Sonderkommando (Georges Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, 2003) o nella costruzione dell'identità nazionale da parte dello Stato israeliano soprattutto dalla guerra dei sei giorni in avanti (Pisanty, 2012).
È pensabile una fruizione dei luoghi della memoria che si tenga lontana da queste trappole e che attivi una riflessione in grado di riconoscere quegli stessi meccanismi di criminalizzazione, marginalizzazione e spersonalizzazione (Alessandro Dal Lago, Non-persone, 1999) che portarono a quegli eventi e che sono tuttora agenti? Una memoria attuale e attiva che si faccia carico delle vittime e non si accontenti dell’oblio come unica forma tradizionalmente contemplata di superamento dei conflitti («Noi la memoria delle morti acerbe / In ogni petto cancelliam […]» Odissea, Libro XXIV, vv. 614-615)?





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